E’ mattina, circa le 7.30. Sono in bici, percorro la ciclabile. Vedo una donna che sta tentando di mettere due buste della mondezza nel cassonetto. Non ci riesce. Il pedalone evidentemente funziona male, tenta di infilarle senza successo. La vedo, rallento.
“Vuole una mano?”.
Mi guarda, accenna solo appena una certa sorpresa e tiene sottocontrollo l’espressione “cosa vuole? non vorrà mica usare un vecchio trucchetto per una qualche truffa?”. Rimane a guardarmi, fermando le sue operazioni, sempre piuttosto sorpresa, ma senza volerla svelare. Io non ci penso troppo. Metto il cavalletto, mi avvicino e le tengo alzato il coperchio. A quel punto si libera finalmente dei pesi. Io chiudo il coperchio. Lei cambia espressione, come sollevata dal positivo e inaspettato esito. Mi guarda con un bel sorriso ed esordisce con una cosa bellissima, un modo di salutare che non sentivo veramente da tempo. Un modo ormai diventato arcaico se usato in una situazione come questa perché detto invece di un più diretto, facile e scacciapensieri “Arrivederci”. Insomma, mi dice: “Buongiorno!”. Buongiorno, come un arrivederci, come in Truman show quando lui salutava i suoi vicini.
E’ stato il più bel buongiorno che mi sia capitato di ascoltare da una vita. Era caldo, pieno di riconoscenza, veniva detto attraversato da un altro tempo. Un segnale di riconoscimento di individui simili tra individui alieni. “Buongiorno”, non come Salve, ma proprio letteralmente come un “che tu possa avere un buon (staccato) giorno”. E io, che non volevo rovinare quel momento magico, eterno, che ormai si stava scrivendo nel marmo della memoria, non l’ho rovinato. No, ho sorriso, e in fretta sono risalito in bici, sottolineandolo con un più banale “Grazie, anche a lei”.
Lo sparire in fretta aveva il significato che quel buongiorno me l’ero meritato e che tu, persona anonima, l’avevi riposto in buone mani. anche io volevo dire, a modo mio, “Buongiorno anche a te!”